LUCREZIA – A dicembre 2010 pubblicammo sul Giornale del Metauro questo articolo prima dell’abbattimento della casa colonica della famiglia Romiti che avrebbe lasciato posto a delle nuove palazzine. Quella casa era stata a lungo abitata dalla famiglia Ciacci. Il ricordo di Francesca Ciacci.
A fine anno non ci sarà più una delle poche case coloniche rimaste a Lucrezia: la casa di ”Romiti“, cosìddetta perché abitata dalla famiglia Romiti Gino e Clara con i loro figli. Prima di loro fu abitata dalla famiglia Ciacci Ermete e Vitaliana con i loro sette figli: Vera, Tarcisio, Tecla, Dorotea, Rosanna, Alessandro e Maria. Nacquero tutti lì e fu anche la casa natale di Ciacci Angelo e Giampiero.
La casa si trova in via Rio Cupo o, come molti lucreziani dicono, “dla dal foss” (zona campo sportivo).
La costruzione è rimasta quella originale: al piano inferiore la cucina, la stalla, la cantina e il forno. Al piano superiore le camere da letto, il magazzino per le provviste dell’inverno e una stanza dove si mettevano le galline a covare. Fuori c’era un capanno per gli attrezzi, il pozzo, un capanno per gli animali, un ripostiglio per il becchime, il pagliaio, la legnaia, il porcile e ovviamente il bagno esterno del tutto rudimentale.
Di fronte alla casa c’era l’aia: luogo di lavoro ma anche di ritrovo nelle serate estive di tutta la famiglia. Pochi erano i confort: nella camera di mio padre, quando nevicava, un mucchietto di neve scendeva tra le tegole del tetto, quella che in dialetto lucreziano si dice “incansciatina“ di neve. Sono certa che nemmeno il letto era sufficiente per scaldarsi perché i materassi erano imbottiti con le foglie di granoturco.
La posizione della casa era ottimale poiché vicino al fosso Rio Secco, grande risorsa per irrigare i campi, per abbeverare gli animali, fare il bucato e, perché no, fare il bagno. D’inverno il bagno si faceva in un grande tino vicino al fuoco e a mio padre lo immergevano per primo perché era il più piccolo.
Il sapone era fatto in casa con i grassi animali fatti bollire a cui veniva aggiunta la dose, una volta raffreddato si tagliava a pezzi. Alcuni giorni fa chiesi a mia zia “Dora” se profumava, ancora devo avere risposta perché mi rispose: “mah!”. Mia nonna era addetta a fare il pane e poi, negli anni, fece imparare alle figlie che saran state ben felici di svegliarsi di buon ora per fare anche quaranta filoni di pane alla volta, sufficienti per una settimana.
Sì, perché la famiglia era già numerosa con i suoi componenti, in più, considerato l’altruismo di mio nonno, accolse in casa un suo cugino di nome Ciacci Ottavio detto “Tao”, vedovo di ben due mogli con quattro figli piccoli. Questo sta a dimostrare che oltre alla miseria vi era un gran senso di altruismo, saggia lezione di vita!
Quando si ritrovavano all’ora dei pasti arrivavano ad essere sedici persone. Immagino la grande tavola apparecchiata con semplici stoviglie e quando c’era la polenta fatta bollire nel “calder” tutti mangiavano in unica tavola di legno detta “paner”. Dimenticavo: nonna era brava a fare la pizza al rosmarino, prima di farla lievitare, con le mani faceva dei pizzicotti e ci metteva lo strutto.
Mio padre ancora mi suggerisce di provare a farla allo stesso modo, ma non potrei essere mai all’altezza! Mia nonna era colei che portava a tavola i prelibati piatti, poveri di ingredienti, ma ricchi di amore e sacrifici, così come le tagliatelle al pomodoro: era un classico farle nei giorni della mietitura quando si radunavano tante persone a lavorare e lei, con la tovaglia chiusa a fagotto annodata sulla testa, le portava nel campo per non far perdere tempo agli operai.
Le tagliatelle son rimaste il prelibato piatto di mio padre. Nei campi lavoravano tutti, maschi e femmine. Mio padre, essendo il più piccolo, era il “badurlo“ di casa e già da allora maturava il grande amore per la natura, infatti piantò una ghianda me tutt’ora vive la grande quercia a fianco dell’ormai scomparsa aia.
Tutti coloro che vi hanno vissuto ricordano le tante fatiche e i sacrifici per servire “il padrone“: i signori Curina (che, a sentire mio padre, erano tutt’altro che buoni padroni). Ricordo infatti i racconti al riguardo: mia nonna “Taliana” così veniva chiamata, faceva il formaggio con il latte di capra e dopo tanta fatica di notti d’inverno passate a mungere nella stalla con spifferi di vento ovunque, otteneva il tanto pregiato formaggio.
Il padrone non si degnava di venirlo a ritirare a Lucrezia ma era mio zio Tarcisio che doveva andare a Fano con i buoi per recapitarlo, in inverno con il freddo e la neve, d’estate con l’afa che faceva sudare anche le mucche.
Un piccolo particolare: il padrone prendeva le forme più belle e rotonde, quelle di forma irregolare rimanevano per chi aveva versato lavoro e impegno. Tante altre erano le fatiche, come quella della coltivazione del baco da seta da cui si otteneva il filo per fare le materassine (trapunte) per il letto o la produzione della canapa per i cordai o per tessere le lenzuola.
Le sere d’inverno scorrevano veloci in quanto si andava a dormire presto, non appena finito il rosario che in ogni famiglia era buona abitudine recitare Lamberto Beltrami, cugino di secondo grado di mio padre, racconta che alla litania “rosa mistica”, tirava un sospiro di sollievo perché voleva dire che il rosario stava per terminare.
Le uscite, lo svago e il divertimento fuori di casa erano limitate. Mio nonno non mandava volentieri le figlie a ballare se non seguite e controllate da mio zio. Tuttavia nel mese di febbraio quando c’era il Festival di Sanremo, tutta la famiglia Ciacci si radunava la sera presso la famiglia Santinelli, poco più sopra, poiché possedevano la radio: così tutti potevano ascoltare le canzoni.
Un evento particolare accaduto nella “casa dei ricordi“: per arrivare alla casa si percorreva la strada di fianco l’abitazione della “Rosina“, strada stretta che attraversava il fosso. Era il 17 gennaio 1963, fuori nevicava e mia zia Leonide aveva le doglie: chiamarono la “levatrice” (ostetrica).
Quando arrivò con la sua Fiat 600 rimase bloccata fra la neve, dovette scendere e proseguire a piedi. La cosa strana era che portò con se suo figlio di circa 7 anni il quale si stancò di aspettare la madre intenta alla sua mansione.
Mio padre di ritorno dal lavoro presso la ditta Berloni, camminando lungo la discesa innevata, vide una macchina ferma e una lucina accesa nella camera di mia zia: capì subito che la macchina era dell’ostetrica e che mia zia stava partorendo.
Oltre a fare la “rotta” per spostare la macchina, un volta rientrato dovette portare a casa, a Cartoceto, il figlio della levatrice che faceva una tale noia ed era mezzo addormentato, senza poter attendere la nascita di suo nipote, nonché mio cugino, Giampiero.
Quanti ricordi… ma quello più bello per quanti vi hanno abitato è e sarà il non dimenticarsi mai di ogni momento trascorso. Il più bel regalo di Natale di mio padre, di suo fratello e delle sue sorelle sarebbe quello di non vederla mai quella casa abbattuta. Ma il tempo passa e al posto della conosciutissima “casa di Romiti” prenderenno posto sei nuove palazzine.
I mattoni cadranno ma i ricordi resteranno grazie ai racconti delle vicende vissute che principalmente mio padre mi ha trasmesso in questi anni. Grazie ad essi mi sembra di aver vissuto in quella splendida “casa dei ricordi”. Sono piccoli frammenti che fanno la storia di una grande famiglia lucreziana: i Ciacci!
Francesca Ciacci